Questa e’ una pagina grigia.
Una pagina sulla quale ho versato qualche lacrima. Una pagina sulla quale piovono parole, ma che stento a scrivere.
Ho avuto un’infanzia felice, senza scossoni, posso dire di aver trascorso molto più di un’infanzia serena, una gioventù spensierata. Un’esistenza giovane nella quale sei figlio, vivi da figlio e non senti l’esigenza di diventare genitore. Perché ti senti ancora figlio. Almeno fino a quando, un giorno, cambia qualcosa e vedi il mondo in un’altro modo. Fino a quando, a tua volta, diventi genitore
Ciò’ che non cambia in un anno, può cambiare in un giorno. Ad un certo punto della propria vita, ci si sofferma un po’ di più su quanto sta accadendo, intorno a se, nel proprio mondo, nella propria famiglia. Stelle che brillavano in un cielo azzurro, pieno di luce blu, si spengono, improvvisamente. La loro luce si spegne. E quel cielo blu pieno di stelle che ogni sera ti ritrovavi a guardare col naso all’insù, pare ogni giorno un po’ più scuro, un po’ più vuoto. Ad ogni stella che brilla va sempre un pensiero o una preghiera, anche se la luce si è spenta, quella stella brilla ancora, grazie al riverbero della luna, che generosa le avvolge e dona loro calore.
In poco tempo, il cielo sopra il mio naso, sta perdendo luce, qualche stella si è spenta e in quello stesso momento mi ritrovo avvolta in un’ombra di tristezza che poggia un velo sul mio sguardo stanco, e mi fa sentire inadeguata, impreparata.
Non si è mai pronti ad accettare che il bagliore di una vita possa spegnersi, fino alla fine siamo onnubilati dalla certezza che la vita prevalga.
Che silenzioso rumore quel bip, lungo e cadenzato, che scandiva il tuo respiro, in una camera affollata da ben altri tre pazienti e relativi familiari al seguito, lancio lo sguardo ad una colonnina digitale che si alza e si abbassa ogni volta che respiri Ossigeno. Mi trovo davanti a te, e non ti vedo da un anno, ti trovo così, con uno sguardo provato quasi irriconoscibile dopo un importante intervento causato da un brutto male, ma il tuo sguardo e’ lucido, mi hai riconosciuta e parli con me, annuisci, ripeti l’ultima parola di un discorso che faccio. In questo breve ma intenso momento, non sento la stanchezza di una giornata interminabile iniziata molto presto, con il solito tran tran dei preparativi per vestire Liam, andare al lavoro, affrontare una giornata in ufficio sapendo che manco solo io, della mia famiglia, ad accorrere in ospedale, a quasi mille chilometri di distanza. Non vedo l’ora di uscire, correre al Nido e prendere Liam, portarlo al primo colloquio alla scuola dell’infanzia e poi precipitarmi in aeroporto, con il cuore che va all’impazzata, in parte perché dovrò lasciare Liam tutto il week-end con il suo papà ed è la prima volta in tre anni che mi allontano per così tanto tempo, in parte perché sono fortemente preoccupata. Liam mi vede scomparire tra la folla dell’aerostazione, in coda ai filtri, e mi saluta con la sua manina, scoprirà malgrado tutto che tornerò dopo due giorni, mentre il volo e’ in ritardo di mezz’ora e al gate devo infilare tutto il contenuto della mia piccola borsa nel bagaglio a mano. Sto partendo e penso che ho un vuoto, proprio li, nella mia pancia. La corsa in taxi dall’aeroporto all’ospedale, dove trovo mio fratello ad accogliermi e a farmi strada.
La sorella di mio padre. La zia, la zia e la sua discrezione, le sue parole misurate, la sua ironia sempre presente. Da piccola, mi sembrava una donna altissima e gioivo ogni volta che un vestitino era pronto, lei cuciva, la zia e la sua macchina da cucire, una vecchia Singer, che era della nonna, che a sua volta sapeva cucire. Cartamodelli, Burda, quella rivista per fare gli abitini su misura. Mi regalo’ una bambola bionda tipo Barbie che ricordo ancora.
La zia ed il mercato. Gli acquisti. Le buste della spesa. I suoi capelli neri. I suoi occhi scuri.
Sono grata di essere arrivata e di trovarti comunque sveglia, sapere che mi riconosci, penso che per fortuna non è così grave come avevano detto i medici due giorni prima, sono contenta di essere qui, anche se per meno di quarantotto ore. Il mio fisico sembra impazzito, l’emozione, seppur controllata, nel rivederti in questa situazione, prende il sopravvento. Penso e spero di ritrovarti così e forse meglio, il giorno dopo.
Ma sabato non rispondi quando ti chiamo, sento solo il rumore del tuo respiro nella maschera d’ossigeno, riconosci la voce di tuo fratello, il più piccolo, e cerchi con tutte le tue forze di tenere aperti gli occhi, ma li richiudi, un sibilo di voce quasi a dire “si, ti sento”, ma le forze ti stanno forse abbandonando. Dormi e dormi, riposi e respiri, e il bip e’ l’unico suono che sembra rimbombare nella mia testa. Ti accarezzo, sulla fronte, ti tengo la mano, ho con me un braccialettino che ho scelto accuratamente per te con mio fratello in Corso e che vorrei farti indossare. Ma mi sento una stupida. E’ ancora li nella sua scatolina, stretta e lunga. Posso solo accarezzarti, chissà se riesci a sentire il calore di una carezza. Ti do un bacio, perché domani mattina parto e torno a casa, un viaggio lungo in auto con mio fratello mi aspetta. Nel mio cuore la speranza di rivederti.
Domenica sera arrivo dal mio pupetto a casa con il suo papà, che ha cercato il più possibile di non fargli sentire nostalgia della mamma, tenendolo impegnato il più possibile. Sono felice ma stanca.
E’ lunedì e si riparte di corsa: casa, nido, ufficio. Mi sento un po’ stanca.
Sono le 9 e arriva un messaggio.
Si è’ spenta una stella. In silenzio, senza dare disturbo, ha aspettato che facesse giorno e che suo fratello e suo nipote, dopo aver vegliato su di lei tutta la notte, tornassero a casa.
In punta di piedi, alla chetichella.